Il Ritorno di Verdansk

Là dove siamo diventati casa: la memoria emotiva di una mappa storica

Nel panorama dei videogiochi, pochi luoghi virtuali hanno saputo imprimersi nella memoria emotiva collettiva come Verdansk di Call of Duty: Warzone. Oggi, con il ritorno della mappa storica, assistiamo non solo al rilancio di un ambiente di gioco amato, ma anche alla riattivazione di un intero tessuto di emozioni, ricordi e relazioni che molti di noi hanno vissuto durante uno dei periodi più complessi della nostra storia recente: il lockdown causato dalla pandemia di COVID-19.

Come psicologo e giocatore, sono rimasto colpito da quanto intensa e viva possa essere la reazione emotiva di fronte alla possibilità di rivivere quegli spazi. Quando sono atterrato di nuovo su Verdansk, ho provato una strana sensazione. Non era semplice nostalgia. Era qualcosa di più profondo. Come quando, dopo anni, ritorni in una vecchia casa dell’infanzia: gli oggetti sono lì, le stanze sono familiari, ma si è cambiati. Il tempo ha trasformato noi e il nostro sguardo, ma il legame affettivo rimane intatto. Verdansk non era solo una mappa. Era casa. Per noi lo era davvero. La nostra “Casa”, la chiamavamo così: un gruppetto di abitazioni un po’ sgangherate, sulla collina subito sopra TV Station. Non era il posto più ricco di loot, né il più sicuro. Ma era il nostro.

Dal punto di vista psicologico, esperienze come questa ci ricordano che il vissuto emotivo non ha bisogno della realtà fisica per essere autentico. La mente umana ha la straordinaria capacità di investire emotivamente anche spazi virtuali, attribuendo loro significati, legandoli a ricordi e affetti profondi. Non importa se Verdansk non esiste nel mondo reale: per chi ha giocato, per chi si è connesso ogni giorno con gli amici in quegli interminabili mesi, Verdansk è esistita, come esiste un ricordo d’infanzia, una strada della propria città, una stanza della propria casa.

Quando nel 2020 il virus esplose, chiudendoci in casa, privandoci della scuola, del lavoro, delle amicizie, delle relazioni, Verdansk divenne uno dei pochi luoghi in cui poter esistere ancora insieme. Ogni giorno, la voce degli amici in cuffia era un antidoto contro la solitudine: “ci sei dopo pranzo?” “Scendiamo a casa?”. Molti di noi hanno attraversato quei mesi senza cadere nella disperazione proprio grazie a quel piccolo rito quotidiano: un controller, una cuffia, una connessione, a tratti instabile. Eppure, lì dentro, c’era il mondo.

In quella solitudine forzata, Warzone apparve come un’ancora di salvezza. Non importava quale fosse la tua giornata, quanta ansia ti avesse mangiato dentro. Sapevi che avresti sentito le voci degli amici nella lobby, le risate prima del drop, le bestemmie su un lag improvviso, la tensione prima di un push disperato. Verdansk era sudore, risate, rabbia, commozione. Era tenersi la notte quando nessuno ti poteva abbracciare davvero. Era la prova che, anche senza toccarsi, anche senza guardarsi negli occhi, gli esseri umani trovano sempre un modo per amarsi. E questa, in fondo, è la verità più potente che un videogioco possa insegnare.

In questi anni si è parlato molto dei videogiochi come strumenti “dopamine-driven”, capaci solo di stimolare gratificazioni rapide e creare dipendenza. Una visione fastidiosa, riduttiva, semplicistica, che guarda solo alla superficie. Sì, è vero: i videogiochi sono costruiti anche per stimolare sistemi di gratificazione. Ma dire che Warzone, in quei giorni bui, fosse solo questo è come dire che una carezza è solo pressione sulla pelle. È una verità vuota. Senza anima. Giocare a Warzone non era anestetizzarsi. Era restare umani.

E oggi, tornando a Verdansk, non torniamo solo in un videogioco. Torniamo a noi stessi, a quella versione di noi che, pur nella paura e nella solitudine del lockdown, trovava il coraggio di sorridere, di aiutare, di sperare. Oggi, mentre rimetto piede su quella mappa dopo tanto tempo, sento un nodo alla gola. Non è nostalgia da gamer. È molto di più. È la memoria emotiva che si riattiva. È il ricordo di chi siamo stati, e di come, in mezzo alla paura, abbiamo trovato un modo per restare insieme.

È proprio nei mondi virtuali che, in un momento storico drammatico, abbiamo trovato modi nuovi di stare insieme, di prenderci cura dell’altro, di affrontare insieme il pericolo (seppure immaginario) e di costruire una memoria collettiva. E forse, il senso più profondo di tutto questo, è che quei mondi non sono rimasti chiusi dietro uno schermo. Sono entrati dentro di noi.

Perché la verità è che Verdansk non è mai stato solo un campo di battaglia. È stato il luogo dove abbiamo imparato che anche attraverso un microfono gracchiante, uno schermo sgranato, un avatar digitale, si può essere presenti per l’altro. Si può amare, ci si può fidare, si può scegliere di restare. E così, ogni volta che torniamo a sorvolare quelle strade distrutte, quei tetti familiari, quelle “case” che chiamavamo casa, non stiamo solo rivivendo un gioco. Stiamo ricordando chi siamo stati. Stiamo custodendo quello che di più umano abbiamo saputo essere. In un tempo in cui sembrava impossibile.

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