Prossemica e Movimento a Occhi Chiusi: Percezione, Connessione e Sensibilità Relazionale

Introduzione

Dal momento che nelle loro interazioni e nei movimenti sul campo da tennis, i ragazzi tendevano a fare affidamento quasi esclusivamente sulla vista, ignorando le potenzialità degli altri sensi, ho progettato un esercizio di prossemica a occhi chiusi per sviluppare la sensibilità relazionale e affinare la percezione non visiva dell’altro e dell’ambiente. Durante questa attività, i partecipanti vengono invitati a muoversi liberamente nello spazio, ad occhi chiusi, concentrandosi esclusivamente su percezioni sensoriali alternative come il tatto, l’udito e l’olfatto. L’obiettivo principale è allenare i tennisti a “sentire” l’altro in modo intuitivo, migliorando la loro capacità di percepire la presenza e i movimenti degli altri senza l’ausilio della vista. Questo tipo di esercizio aiuta a potenziare i sensi non visivi, in particolare la percezione spaziale e la sensibilità corporea, competenze fondamentali in un contesto come quello del tennis. Le dinamiche di gioco, infatti, richiedono reazioni rapide e anticipazioni intuitive, che possono essere migliorate proprio attraverso l’allenamento sensoriale. La deprivazione visiva durante l’esercizio stimola il cervello a fare affidamento su altre modalità sensoriali, favorendo una maggiore consapevolezza del proprio corpo nello spazio e una percezione più acuta degli altri. Questo tipo di preparazione mentale aiuta gli atleti a sviluppare un senso di “presenza” più profondo, che può riflettersi positivamente nelle performance sportive, aumentando la reattività e la capacità di adattamento alle dinamiche di gioco.

L’esperienza

L’esercizio prevedeva di privare i partecipanti temporaneamente della vista, per esplorare il modo in cui il corpo e l’ascolto sensoriale potessero, come detto, diventare strumenti per percepire l’altro e lo spazio. L’attività iniziava invitando i ragazzi a disporsi in ordine sparso in uno spazio ampio e sgombrato da ostacoli, con gli occhi chiusi. Li guidavo a focalizzarsi sul respiro, lasciando che si concentrassero sul proprio corpo. Guidavo i ragazzi a muoversi nello spazio con gli occhi chiusi, cercando di percepire la presenza degli altri senza utilizzare la vista. Non dovevano avere una meta precisa né pensare troppo ai propri movimenti, ma lasciarsi guidare dalle sensazioni del corpo e da ciò che percepivano intorno a loro. Davo queste indicazioni sotto forma di voce narrante. I ragazzi iniziavano a muoversi lentamente, con i passi incerti tipici di chi si avventura in un territorio sconosciuto. All’inizio, il gruppo era dominato da una certa timidezza: si percepiva una cautela reciproca, un timore di entrare in contatto o di urtare qualcun altro. Le mani si alzavano automaticamente in avanti, come antenne per esplorare lo spazio circostante. Man mano che i minuti passavano, però, qualcosa iniziava a cambiare. I movimenti si facevano sempre più fluidi, meno rigidi, e la cautela iniziale lasciava spazio a una crescente curiosità. Privati della vista, i ragazzi cominciavano a usare altri sensi: l’udito, per captare i suoni dei passi altrui; il tatto, per percepire eventuali sfioramenti o variazioni di pressione nell’aria; probabilmente sia la sensibilità cinestesica che quella olfattiva entravano in gioco e chissà persino una sorta di “intuito corporeo” aggiuntivo o sesto senso. Tutte le varie risorse sensoriali (eccetto la vista) sembravano guidare o orientare i ragazzi nell’incontro con gli altri e nello spostamento nell’ambiente. In alcuni casi, qualcuno si fermava per un istante, quasi a “sentire” meglio la presenza dell’altro, per poi riprendere il proprio movimento nello spazio. Uno degli aspetti più intensi dell’esperienza era il silenzio che avvolgeva il gruppo. Non era un silenzio vuoto, ma pieno di presenza e ascolto. Senza parole, i ragazzi comunicavano attraverso il movimento e il contatto, creando una rete invisibile, ma sensibile, di connessioni. Ogni partecipante sembrava cercare un equilibrio tra il proprio mondo interno e la relazione con gli altri, in un dialogo continuo fatto di sfioramenti, ritiri e avvicinamenti. Alcuni momenti significativi: un ragazzo sembrava attratto dalla presenza di un altro e continuava a girargli intorno, mantenendo però una certa distanza ed era come se stesse esplorando il confine tra sé e l’altro, cercando di percepire dove finiva il proprio spazio e dove iniziava quello altrui. Questi momenti, pur privi di una struttura narrativa verbale, avevano una qualità comunicativa meta mimica relazionale: un dialogo silenzioso ma emotivamente intenso. Dopo un po’ di tempo li invitavo a fermarsi e a rimanere immobili per un momento, con gli occhi ancora chiusi, chiedendo. loro di ascoltare le sensazioni del corpo, percepire il proprio respiro e notare la presenza degli altri intorno. Poi, lentamente, suggerivo di riaprire gli occhi. Il passaggio dalla deprivazione visiva alla percezione completa era vissuto in modo intenso: alcuni ragazzi sembravano sorpresi dalla quantità di dettagli che la vista restituiva loro, come se il mondo fosse improvvisamente più ricco e vibrante. Altri, invece, notavano come la percezione extra-visiva avesse lasciato una traccia: la sensazione di uno spazio condiviso e di una connessione profonda con gli altri. L’esperienza si concludeva con una restituzione verbale. Dalle riflessioni dei ragazzi emergeva chiaramente che, sebbene inizialmente avessero provato un senso di insicurezza, senza la vista, avessero gradualmente scoperto modi nuovi di percepire gli altri e lo spazio, permettendo loro di esplorare una modalità diversa di relazionarsi, rafforzando il senso di fiducia reciproca all’interno del gruppo. Muoversi insieme a occhi chiusi, affidandosi unicamente al corpo e all’intuito, aveva creato un’esperienza di connessione, che andava oltre le parole e le consuete dinamiche sociali.

Potenziamento sensoriale extravisivo

Secondo Maurice Merleau-Ponty (1945), il corpo è il principale mezzo attraverso cui percepiamo lo spazio e gli altri e nella e nella sua fenomenologia della percezione sottolinea come la vista, sebbene dominante, non sia l’unico canale sensoriale per costruire una connessione con il mondo. Merleau-Ponty (1945) afferma che il corpo non è solo oggetto nel mondo, ma strumento per conoscere e interagire con esso e così, eliminando la vista, gli atleti sono invitati a entrare in contatto con le sensazioni corporee e a sviluppare una percezione più acuta attraverso il tatto, l’udito, il senso cinestetico, l’olfatto, l’olfatto. Questo non solo migliora la sensibilità fisica, ma consente di accedere a una consapevolezza più profonda della propria presenza e di quella degli altri. Questo “sentire” l’altro va oltre la semplice osservazione visiva; implica una percezione intuitiva che si basa su segnali corporei e spaziali.

L’esercizio di prossemica e movimento ad occhi chiusi può allenare i tennisti a sviluppare questa sensibilità, consentendo loro di migliorare il timing, la prontezza relativa alla direzione del colpo e la capacità di posizionarsi in modo ottimale sul campo, comprendendo meglio i segnali “sottili” provenienti dall’altro e dall’ambiente. Anche se l’avversario è fisicamente distante, i segnali che emette direttamente – il movimento del corpo, il ritmo che impone al gioco, il suono dovuto all’impatto della pallina – e indirettamente tramite la pallina e il suo avvicinarsi, possono essere colti attraverso un ascolto attento di tutti i sistemi percettivi. Questo tipo di percezione si avvicina al concetto di “memoria del futuro” descritto da Stern (1985), che evidenzia come l’anticipazione delle intenzioni dell’altro sia basata su schemi corporei e ritmi pre-consci. Dal punto di vista emotivo, l’esercizio offre un’opportunità unica per esplorare la vulnerabilità e la fiducia. Chiudere gli occhi e muoversi nello spazio senza vedere richiede un abbandono delle difese abituali e una maggiore apertura verso l’altro. Questo aspetto può contribuire a rafforzare la fiducia in se stessi e nel gruppo, migliorando la capacità di affrontare situazioni di incertezza. Inoltre, questa pratica stimola l’empatia relazionale. Attraverso il “sentire” non visivo, i partecipanti sviluppano una connessione più profonda con gli altri, imparando a riconoscere e rispondere ai segnali sottili che le persone trasmettono attraverso il corpo e il movimento.