L’ombra: il lato nascosto del gioco interiore
Introduzione ed Esperienza
Un giorno, durante uno degli incontri con il gruppo emergeva il tema delle cose indicibili: quelle emozioni, pensieri o esperienze che spesso restano nascoste, non dette, per timore, vergogna o semplicemente perché difficili da definire ed esprimere. Si presentava l’occasione preziosa per lavorare insieme su ciò che resta “in ombra” dentro, su quegli aspetti che non sempre trovano voce ma che possono emergere attraverso altri linguaggi, come quelli simbolici extra verbali. In quel momento, una finestra della sala lasciava entrare una luce intensa e osservavo come la luce del sole proiettasse sul muro le ombre degli oggetti nella stanza. Proponevo allora al gruppo di lavorare proprio sul tema dell’ombra, ma non in modo astratto: volevo che lo sperimentassero direttamente, trasformando questa metafora in un’esperienza concreta e creativa. Chiedendo così a uno dei ragazzi di posizionarsi davanti alla finestra, lasciavo che la luce del sole proiettasse la sua ombra sul muro. L’ombra del suo corpo, allungata e nitida, diventava una sorta di “prolungamento” visibile di sé, un’immagine riflessa che si poteva osservare, esplorare e, in qualche modo, comprendere. Invitavo il ragazzo a scegliere una posa che sentiva significativa per lui, un gesto che potesse rappresentarlo in quel momento. Il resto del gruppo era chiamato ad osservare attentamente quell’ombra e, in silenzio, a disegnarla su un foglio: alcuni catturavano l’interezza della figura, altri si concentravano su un particolare, come una mano, un piede o un dettaglio del profilo, lasciando libertà di interpretazione: l’ombra poteva essere solo un punto di partenza per costruirci sopra qualcosa. Non era necessario riprodurla fedelmente, ma ciascuno poteva trasformarla, immaginare che quella forma diventasse qualcos’altro, dando spazio alla fantasia e alla propria visione personale. Così si stendeva una varietà di interpretazioni: alcuni fogli riportavano immagini essenziali e minimali, altri invece mostravano elaborazioni complesse, dove l’ombra era diventata un nuovo oggetto, un simbolo, una scena. Ogni disegno raccontava una storia, un’emozione o un’idea unica, rendendo evidente come lo stesso stimolo iniziale avesse generato visioni profondamente diverse. A questo punto, proponevo al gruppo di costruire insieme una narrazione collettiva partendo dai disegni. Il racconto si sviluppava in modo sequenziale: chi voleva poteva prendere l’iniziativa e collegare la propria creazione a quella di un altro, proseguendo la trama con nuove aggiunte, fino a formare una storia che per il gruppo poteva dirsi completa. Questo processo, oltre a stimolare la fantasia, permetteva di collegare le diverse prospettive in un flusso condiviso, creando un intreccio che includeva tutti. Noi, come terapeuti, facilitavano la mentalizzazione di ciò che stava accadendo, facendo notare ai ragazzi i collegamenti tra le loro immagini e i contenuti emotivi che emergevano, fornendo implicitamente valore simbolico ai loro prodotti grafici. Una volta completata la storia, passavamo ad analizzare e approfondire i temi principali emersi attraverso le immagini simboliche nate nell’ombra. Ad esempio, si poteva venire a delineare il tema del bisogno di essere visti e apprezzati (impulso esibizionista, fondamentale nei primi anni di vita per la costituzione di un Sé equilibrato e coeso) (Kohut, 1971) o il timore di esporsi per paura di essere giudicati che può essere alla base di una fissazione al Sé grandioso arcaico (Kohut, 1971). A partire da questa consapevolezza, il gruppo sceglieva di rappresentare l’ombra in modo simbolico attraverso un’azione collettiva. La fase finale consisteva quindi nel dare vita all’ombra, attraverso un’interazione o acting creativo che mettesse in relazione la persona con la sua ombra. Il gruppo rinforzava il bisogno esibizionistico “mettendo in scena” l’ombra, creando cioè movimenti o azioni che ne rappresentassero la sua qualità e facendola poi “dialogare” con la persona che, intanto, circondata, veniva a trovarsi al centro del gruppo. Questa interazione coreografica, simile ad un mandala dinamico (Jung, 1950) permetteva di volta in volta ad ognuno dei partecipanti di relazionarsi con la propria ombra, osservandola dall’esterno e accogliendo il modo in cui il gruppo la percepiva. L’ombra, così, da qualcosa di nascosto e indefinito, diventava visibile e parte di un dialogo integrativo consapevole. Ciascun atleta non era più solo nel confrontarsi, come nella fase iniziale, con quel lato di sé, infatti il gruppo, attraverso il movimento e la rappresentazione, lo aiutava a integrare quell’aspetto, rendendolo meno minaccioso, più accettabile e rendendolo risorsa: qualcosa che, una volta riconosciuto, poteva essere accolto come parte integrante della propria identità.
Il significato psicodinamico dell’ombra: accogliere ciò che resta nascosto
Dal punto di vista psicodinamico, l’ombra rappresenta una delle metafore centrali nella psicologia analitica di Carl Gustav Jung. Jung (1951) definisce l’ombra come l’insieme degli aspetti del sé che vengono repressi o non riconosciuti, spesso perché ritenuti socialmente inaccettabili, indesiderabili o inconciliabili con l’immagine cosciente di sé. L’ombra, tuttavia, non è soltanto una zona oscura: essa racchiude anche potenzialità inespresse, talenti nascosti e parti autentiche dell’individuo che attendono di essere integrate nella personalità cosciente. L’esercizio proposto permette di esplorare simbolicamente la propria ombra attraverso la figura di un compagno e con l’aiuto di un gruppo. Disegnare l’ombra e costruire una storia condivisa favorisce il passaggio dalla proiezione sugli altri, all’introiezione dentro di sé di contenuti emotivi scomodi personali, che così possono essere pronti per una rielaborazione. L’azione finale del gruppo che instaura un dialogo metamimico, con il compagno al centro, rappresenta un momento di riconoscimento e accettazione: l’ombra non è più qualcosa da temere o da ignorare, ma un aspetto con cui relazionarsi e da cui imparare. Il gruppo, quindi, agisce come un contenitore trasformativo, favorendo l’elaborazione e l’integrazione degli aspetti dell’ombra. René Kaës (1993), nel suo lavoro sulla psicodinamica dei gruppi, evidenzia come il gruppo possa rappresentare uno spazio condiviso dove i membri proiettano parti di sé, comprese quelle più difficili da elaborare individualmente, e in cui queste proiezioni possono essere riconosciute e trasformate (Kaës, 1993). La costruzione di una storia collettiva pertanto permette al gruppo di “metabolizzare” l’ombra, sia in termini personali sia in termini relazionali, anche in riferimento alla sua dimensione collettiva (archetipica). In questo senso, l’attività non si limita solo ad un’esplorazione individuale, ma si configurava come un’esperienza gruppale, in cui ogni partecipante si sente parte di un processo più ampio, contribuendo alla narrazione e al dialogo con l’ombra dell’altro. Questa dinamica permette di creare un ponte tra mondo interno e relazioni interpersonali, favorendo un clima di accettazione reciproca.
Implicazioni nell’ambito tennistico: integrare le parti nascoste per migliorare la performance
L’attività sull’ombra ha anche una rilevanza specifica nel contesto tennistico. Nel gioco del tennis, come in altri sport individuali, le emozioni represse o gli aspetti non integrati del sé possono dare segno di sé in momenti di pressione, compromettendo la performance. Ad esempio, la paura di sbagliare, l’aggressività repressa o il senso di inadeguatezza, soprattutto se non consapevoli, sotto forma di complesso (Jung, 1934) possono influire negativamente sulla concentrazione e sulla fluidità del gesto tecnico. Lavorare simbolicamente sull’ombra permette agli atleti di confrontarsi con queste emozioni o aspetti nascosti, riconoscendoli e integrandoli come parti legittime di sé. Questo processo può contribuire a ridurre le tensioni interne, migliorare la consapevolezza emotiva e aumentare la capacità di autoregolazione durante la partita. Inoltre, il dialogo verbale e non verbale del gruppo con ogni persona si ricollega al concetto di co-regolazione: nel tennis, il sostegno di un allenatore o di un team può fungere da risorsa per affrontare le difficoltà e trovare un nuovo equilibrio.
Conclusione: accogliere l’ombra per crescere come individui e atleti
L’esperienza proposta sul tema dell’ombra si rivela uno strumento di esplorazione personale, relazionale, gruppale e collettiva. Attraverso l’esperienza mista (non verbale e verbale) gli adolescenti hanno l’opportunità di entrare in contatto con aspetti profondi di sé e, la condivisione di contenuti-ombra, rappresenta di per se stessa un’esperienza di iniziazione, che avviene in un contesto protetto, pur mantenendo le emozioni intense che un rito di iniziazione deve possedere. Questo tipo di lavoro, che integra elementi psicodinamici e creativi, non solo favorisce una maggiore consapevolezza emotiva, ma fornisce anche strumenti pratici di pensiero (Bion, 1962) per affrontare le sfide della vita e dello sport. Nel tennis, dove il controllo emotivo e la capacità di integrazione sono fondamentali, esercizi come questo possono rappresentare un passo importante verso una performance più consapevole e armoniosa. Come insegna Jung (1951), l’incontro con l’ombra è un compito difficile, ma è anche un passo indispensabile per la crescita personale e l’individuazione.
Un incontro con l'ombra: testimonianza di un'esperienza simbolica e relazionale
Introduzione
In questa sezione, condivido i disegni realizzati durante una specifica seduta del percorso dedicata all’esplorazione dell’ombra di uno dei partecipanti al gruppo. I disegni, creati da tutti i membri del gruppo, rappresentano un’interpretazione simbolica e personale dell’ombra di un partecipante, offrendo uno sguardo profondo sulle emozioni e sui vissuti proiettati. Successivamente, riporto la narrazione collettiva nata dall’elaborazione di queste immagini, una storia che sintetizza le dinamiche, i significati e i conflitti emersi durante l’esperienza. Questa documentazione, che include i disegni e la narrazione, viene presentata con il consenso pienamente informato dei partecipanti ed è una testimonianza concreta del lavoro svolto durante il percorso.
I disegni
La Narrazione
“Un ragazzo che fa il calciatore che vuole diventare un professionista. Va a NY per una partita importante. Nel viaggio pensa a cosa è importante per lui se stare da solo o avere qualcuno che gli fa compagnia. Pensa alle ragazze. Finisce la partita e l’allenatore lo sgrida perché ha perso. In quel momento a NY arriva un meteorite e lui per non soffrire si spara.”
Reazione non verbale del gruppo: scontri tra i partecipanti con prepotenza, passando si danno spallate.
Lettura psicodinamica del racconto
1. Il sogno di diventare un professionista: ideale dell’Io e il Super-Io
L’obiettivo del protagonista di diventare un calciatore professionista rappresenta un’immagine ideale dell’Io, un obiettivo che può essere visto come il risultato di una forte pressione interna. Questa pressione può essere interpretata come l’espressione del Io ideale, che spinge il giovane ad eccellere e a dimostrare il proprio valore attraverso la performance. Tuttavia, il sogno è anche carico di ansia, perché legato a un desiderio di riconoscimento che potrebbe compensare un senso di insicurezza o di inadeguatezza, come evidenziato dall’idea di essere accompagnato durante il viaggio. Il viaggio a New York per la partita, simbolicamente, rappresenta il confronto con le aspettative interne e probabilmente anche esterne (giudizio sociale). La città, immensa e anonima, può evocare un senso di grandezza ma anche di smarrimento, amplificando il conflitto interno tra il desiderio di affermazione e la paura del fallimento. Ricordiamo che il ragazzo in questione si è trasferito dalla sua città natale a Foligno, entrando nella scuola numero 1 d’Italia (potremmo dire la New York del Tennis).
2. La riflessione sulla solitudine e sulle relazioni: il conflitto tra bisogno e autonomia
Durante il viaggio, il giovane si interroga su una questione centrale: meglio stare da soli o condividere la vita con qualcuno? Questa riflessione suggerisce un conflitto interno tra il bisogno di indipendenza e il desiderio di vicinanza emotiva. Le ragazze a cui pensa, proprio perché richiamano il desiderio sessuale, riescono a coprire il bisogno più profondo di sostegno affettivo, che, però, è necessario mistificare, perché vissuto come vulnerabilità. Il femminile, se intriso di fantasie materne, potrebbe distrarre, proprio perché carico di sentimenti ambivalenti (vorrei un sostegno, ma non dovrei sentire questa esigenza). Dal punto di vista psicoanalitico, questo tema potrebbe riflettere più che una dinamica edipica non risolta (di fatto il ragazzo ha 15 anni), una dipendenza narcisistica non accettata: il calciatore cerca di bilanciare il bisogno di autonomia (separazione dalla figura materna) con il desiderio di essere accudito e compreso. La lotta tra il sé indipendente e il sé relazionale potrebbe anche tradursi nella difficoltà di riconoscere e integrare bisogni affettivi autentici.
3. La sconfitta e il rimprovero: la ferita narcisistica
La perdita della partita e il rimprovero da parte dell’allenatore rappresentano una ferita significativa al senso di autostima del protagonista. L’allenatore può essere interpretato come una figura paterna, o una personificazione del Super-Io ipercritico: Kernberg (1984) parlerebbe di radicali sadomasochistici del super-Io. La rabbia e il senso di colpa emergono come reazioni primarie a questo fallimento, attivando un circolo vizioso di auto svalutazione e frustrazione. La rabbia verso l’allenatore, che non viene espressa direttamente, si rivolge inconsciamente verso il protagonista stesso, trasformandosi in aggressività auto-diretta, una dinamica che spiega l’atto finale di autodistruzione depressiva (Freud, 1915).
4. Il meteorite: il simbolo del destino e della catastrofe
Il meteorite che colpisce New York è un elemento simbolico di rara potenza distruttiva può essere interpretato come una manifestazione dell’aggressività repressa che si scarica su scala cosmica, proiettando la rabbia verso un mondo esterno vissuto come ostile e incomprensibile. Il meteorite rappresenta anche un evento ineluttabile, un segno del destino che interrompe la narrazione e porta alla distruzione. Il meteorite potrebbe essere visto non solo come una metafora dell’angoscia esistenziale e della percezione inconscia di una crisi profonda, ma soprattutto un ko che riguarda tutti, senza lasciare spazio ad invidia, rimorsi e rimpianti.
5. Il suicidio: l’espressione estrema dell’aggressività auto-diretta
L’atto di spararsi rappresenta il culmine della dinamica di aggressività auto-diretta che attraversa tutta la storia. Questo gesto può essere interpretato come una forma di acting out, in cui l’aggressività repressa viene scaricata attraverso un’azione drammatica e definitiva. Il suicidio, in questo contesto, è un gesto simbolico: il tentativo di distruggere la parte di sé che non riesce a sopportare il fallimento e il rimprovero. È un modo per porre fine al conflitto tra il Sé ideale di diventare professionista e il Sé reale, cioè l'incapacità di reggere la pressione e il fallimento. Il conflitto questa volta coinvolge il Sé, si sposta infatti dalla dimensione psichica dell’Io a quella globale del sé, che comprende non solo immaginazione e linguaggio verbale, ma anche il corpo in movimento.
L’ombra dell’aggressività: una chiave interpretativa centrale
L’intera narrazione sembra essere attraversata da un tema ricorrente: l’aggressività. Questa si manifesta in diverse forme interagenti:
il rimprovero dell’allenatore, che se da una parte può derivare dalle critiche mosse dalle persone reali, dall’altra rappresenta un oggetto interno persecutore.
il meteorite che colpisce New York se da un lato rappresenta il potere distruttivo del fallimento, la cui responsabilità è proiettata sul mondo esterno, vissuto come ostile, dall’altro lato fornisce la speranza difensiva di non essere soli in questo fallimento, che riguarda la totalità dei residenti in questo college sportivo di eccellenza
il suicidio se per un verso è l’epilogo rispetto a senso di colpa e auto-svalutazione, per l’altro verso protegge da una sofferenza maggiore (la morte da meteorite), cioè dal dubbio che il fallimento possa davvero riguardare tutti gli altri e rendersi conto invece che potrebbe spettare solo a lui.
Dal punto di vista psicodinamico, questa distruttività può essere letta come il risultato di una difficoltà nel canalizzare le pulsioni aggressive in modo costruttivo (come per certi aspetti le spallate, pur prepotenti, rappresentano in termini di grinta, caparbietà, volontà di provare e riprovare). La mancanza di un contenitore emotivo adeguato (rappresentato dal gruppo o da figure di sostegno) rende difficile risolvere nodi emotivi a così alta intensità, che pertanto culminano nella loro esplosione distruttiva. In effetti, durante la rappresentazione non verbale, il gruppo ha scelto di risuonare con l’ombra del partecipante in una modalità conflittuale e aggressiva. L’ombra, anziché essere un’entità costruttiva e o collaborativa, è messa in scena come forza oppositiva. I ragazzi si muovevano in modo deciso e ostile, camminando ognuno verso l’altro con movimenti duri e scontrandosi spalla a spalla. Questa rappresentazione rispecchiava il fatto che l’ombra non veniva percepita come un aspetto di sé da integrare, ma come un nemico da affrontare. In termini psicodinamici, questo atteggiamento potrebbe riflettere il modo in cui l’atleta in questione, (ma il tema è certamente comune al gruppo) vive la propria aggressività al servizio del senso di fallimento: non tanto come elemento da comprendere, accettare e da cui farsi stimolare, ma come forza esterna che lo sfida e con cui è in costante lotta. Conclusione La narrazione del giovane calciatore rappresenta una metafora eloquente dei conflitti psicodinamici legati all’ambizione, a come essa si inserisce nella relazione con l’altro e alla gestione di emozioni intense. Attraverso l’interpretazione psicoanalitica, è possibile leggere questa storia come un’espressione simbolica dell’aggressività e delle difficoltà nel gestire il fallimento e l’auto-svalutazione. L’esperienza del gruppo, come contenitore trasformativo, può offrire uno spazio per integrare questi aspetti in modo costruttivo, permettendo ai ragazzi di esplorare e accettare la propria ombra, rendendola una risorsa piuttosto che una minaccia e far sì che un’esperienza in partenza tanatica possa diventare erotica (Chiozza, 1970)